lunedì 4 dicembre 2017

SICHUAN EXPEDITION 2017 - REPORT

Eccoci qui di ritorno dalla nostra spedizione sulle montagne cinesi con tante cose che meritano di essere raccontate ma soprattutto con un’esperienza che ha cambiato ognuno di noi, e questa forse è la cosa più importante. Io penso che le esperienze intense vissute in montagna servano a farci capire ogni volta sempre un po’ di più chi siamo e che cosa conta veramente…. Per questo continuo ad andare in montagna alla ricerca di esperienze per me nuove e inesplorate, non basta continuare a rivivere quello che già si conosce…..Nonostante tutto.
Ma torniamo alla spedizione. L’idea di andare in Cina era nata più di un anno fa quando io e François avevamo deciso di fare qualcosa insieme nell’autunno 2017. L’idea che avevamo era quella di partire per qualcosa di “easy”, senza troppe pretese ma con la voglia di aprire qualche via nuova in un posto remoto. Dopo aver valutato diverse possibili destinazioni, l’amico Martin Elias mi parlò del Sichuan, regione della Cina dalle infinite possibilità per un alpinismo di esplorazione alla scoperta di terreni selvaggi e totalmente inesplorati. Mi consigliò di consultare il libro di un alpinista/esploratore giapponese, un tal Nakamura. Dopo aver “googolizzato” il nome Nakamura in tutte le sue declinazioni riuscii a risalire al titolo del libro e alla casa editrice giapponese che lo aveva pubblicato. Un paio di e-mail e carta di credito alla mano riuscii a ordinare il libro, incredibile il potere dell’e-commerce! Una volta ricevuto il libo e dopo avergli dato una rapida sfogliata ormai non c’erano più dubbi: dovevamo andare in Sichuan! Stavamo però parlando di una regione della Cina grande come l’Europa e nel suo interno ci sono molti massicci montuosi: la scelta della nostra destinazione finale era tutt’altro che definita!!
Nel frattempo bisognava anche formare una squadra: il gruppo fa la forza in regioni remote, sia dal punto logistico che economico e in due eravamo decisamente troppo pochi. Non ci volle molto a convincere Emrik: appena François gli parlò della cosa ne fu subito entusiasta. Eravamo già in 3. Però comunque un po’ pochi. Ognuno di noi cercò di trovare possibili candidati interessati alla cosa ma per un po’ non trovammo riscontri positivi. Finchè non saltò fuori un vecchio amico di Emrik: Tomas Franchini. Tomas è una guida e un forte alpinista trentino, pensammo subito che era un buon acquisto e non esitammo a includerlo nel gruppo. Poi altri due amici di Tomas si aggregarono: Matteo Faletti e Bicio Dellai. Noi non conoscevamo né Matteo né Bicio ma pensammo che se Tomas voleva partire con loro potevamo fidarci e poi comunque avremmo comunque fatto due squadre abbastanza indipendenti. Anche la squadra era ormai al completo!!
Quello che seguì potrebbe essere definito come una sorta di “caos organizzato”, e cioè: scelta del massiccio obiettivo della spedizione, scelta dell’agenzia su cui appoggiarsi per la logistica e soprattutto procedure burocratiche per fare i visti per poter stare in Cina per più di 30 giorni (che è la durata massima del visto turistico standard per la Cina)…..Alla fine, non so ancora bene come, riuscimmo a districarci in tutto ciò definendo come obiettivo il Monte Edgar (una magnifica montagna alta 6.618mt), appoggiandoci al sig. Liu Feng (detto Leo, noto boss del Sichuan Alpin Club) per la logistica e ricevendo miracolosamente i visti sui passaporti un paio di giorni prima della data della partenza. Ancora incredulo mi ritrovai imbarcato sul volo per Chengdu (la capitale del Sichuan) in compagnia dei miei compagni d’avventura. Avventura con la A maiuscola perché sapevamo bene che al di là dell’Edgar ci saremmo trovati in un’area molto poco esplorata e che tutte le montagne intorno a noi sarebbero state le probabili candidate per una prima ascensione!
Arrivati a Chengdu ci troviamo subito immersi nel caos di una metropoli da 12 milioni di abitanti. Leo ci scorta gentilmente all’albergo da lui prenotato e la prima sera la passiamo a discuter i dettagli logistico-economici della spedizione e a brindare al nostro arrivo in Cina. Oltre a Leo facciamo conoscenza con Donald, che sarà il nostro interprete per tutta la spedizione (in Cina le persone che parlano inglese sono rarissime), con Zhang, che da quello che ci dicono è il capo del Sichuan Alpine Club e con Schock che sarà il nostro cuoco, responsabile logistico al campo base nonché “liason officer”.
Il giorno seguente io lo passerò all’aeroporto per recuperare un collo che avevamo spedito dall’Italia con all’interno buona parte del nostro materiale da alpinismo, mentre gli altri ragazzi saranno scortati dal buon Donald a fare tutti gli acquisti necessari per un mese di sopravvivenza al campo base. La sera partiamo alla ricerca di un ristorante occidentale in quanto dopo due pasti e una colazione ci sentiamo già abbastanza saturi di cucina cinese (per lo meno io François e Emrik, i trentini invece sembrano sopportare meglio le spezie cinesi, soprattutto Tomas ne è entusiasta…forse perché non gli hanno ancora fatto provare cosa intendono loro per “piccante”!). Alla fine finiamo a mangiare pizza in un Pizza Hut, e riusciamo ad addormentarci senza aver violentato le papille gustative.
La mattina seguente ci alziamo presto per partire alla volta di Moxi Town, l’ultima cittadina prima della “Nanmenganggou Valley”, la valle che dovremo risalire per posizionare il nostro campo base ai piedi dell’Edgar. Dopo 6 ore di macchina arriviamo a destinazione, in una ridente località di montagna cinese (con influenze tibetane) che ci offre ancora tutti i confort prima di abbandonare la civiltà e salire finalmente in montagna. Dormiamo in un ostello in un villaggio pochi chilometri a nord di Moxi Town e la serata la passiamo a mangiare ancora cibo maledettamente cinese e a dividere tutti i carichi per i portatori. Finalmente dopo una breve notte di riposo ci ritroviamo in cima della strada poderale che segna l’inizio della valle che dovremo risalire per posizionare il nostro campo base: Leo e Zhang ci salutano con un sorriso a 32 denti e un vigoroso “good luck”, mentre Schock e Donald saliranno con noi al campo base. Il gruppo dei nostri portatori è abbastanza eterogeneo: si va dai giovanotti in giubbotto e jeans a quelli più anziani con stile decisamente più “contadino”, non manca neanche qualche donna che evidentemente non ha paura di farsi una bella sgambata di un paio di giorni con 20kg sulle spalle. Il ritmo di salita è decisamente lento ma è chiaro che non possiamo pretendere di più dato i pesi che stiamo trasportando e il terreno sconnesso: risaliamo infatti sul bordo del grosso fiume che ha formato la valle, camminando su sassi di tutte le dimensioni spesso ricoperti da muschio più o meno viscido, insomma non esattamente il tipico sentiero escursionistico a cui siamo abituati sulle nostre alpi! Verso le 16 arriviamo ad una zona di confluenza di due fiumi dei quali noi dovremo seguire quello che risale la valle di sinistra e che ci porterà ai piedi del monte Edgar. Schock decide che questo è il punto dove dovremo accamparci per la notte e abbiamo giusto il tempo per posare i nostri zaini prima di essere investiti da una fitta nebbia carichissima di umidità: nel giro di 5 minuti le nostre giacche in gore-tex grondano già d’acqua e ci affrettiamo a farci una piazzuola e a montare la nostra tenda per la notte, mentre i portatori si costruiscono un riparo di fortuna tra gli alberi (basicamente qualche telo per ripararsi dall’umidità sotto i quali accendere dei fuochi per riscaldarsi). Dopo una cena frugale a base di riso e qualche verdura riscaldati (già preparati in precedenza dal buon Schock), decidiamo di obbligare tutto il gruppo a partire presto il giorno dopo dato che le previsioni meteo sembrano buone per il mattino ma con peggioramenti nel pomeriggio: negoziamo una sveglia verso le 6. Il giorno dopo quindi partiamo presto e i portatori si avviano diligentemente risalendo il fiume di sinistra come previsto: Schock ci assicura che in 4 orette arriveremo al posto designato per il campo base (Schock era già stato nella valle anni addietro con una spedizione russa e la sua idea era posizionare il nostro campo base dove l’avevano messo i Russi). Dopo poco più di un’ora di cammino però, i portatori abbandonano il letto del fiume e tagliano nella vegetazione fitta fino a raggiungere una radura nella piana alla base della morena del ghiacciaio: quello è il posto dove vorrebbero farci piazzare il campo base. Noi però sappiamo bene che ci troviamo troppo bassi e che abbiamo bisogno di salire di più per poter ridurre gli avvicinamenti ai campi alti: François e Emrik si avviano quindi alla ricerca di un posto più idoneo per il nostro campo base mentre io e gli altri cominciamo a “litigare” coi portatori per convincerli a salire più in alto e soprattutto per evitare che abbandonino lì il loro carico e comincino a scendere a valle! Dopo un tempo che ci sembra infinito François ci annuncia per radio di aver trovato un posto buono sulla sinistra orografica del ghiacciaio: in qualche modo riusciamo a convincere i portatori a proseguire e a mezzogiorno circa ci troviamo tutti sulla radura che sarà la nostra casa per i prossimi 30 giorni, a quota 3.850mt con una magnifica vista sul monte Edgar e sulla valle sottostante immersa nella nebbia. Solo successivamente ci renderemo conto di quanto una giornata di sole sia rara al campo base e della fortuna che abbiamo avuto nell’avere quella vista quel giorno! Montiamo le tende e terminiamo la giornata gustando il primo pasto a base di verdure e riso preparato da Schock al campo base.
I portatori e i loro carichi

Risalendo il grande fiume

La valle da noi risalita

Quasi al campo base

Le nebbie che non ci hanno mai abbandonato

Dato che le previsioni meteo ci annunciavano una giornata di bel tempo seguita da 2/3 giorni di tempo instabile decidiamo di approfittare subito della giornata di bel tempo per fare una salita di acclimatamento in giornata. Io, François e Emrik decidiamo di salire ad una cima dietro al campo base per una cresta che a prima vista ci sembra abbastanza semplice e ideale come primo approccio alla spedizione, mentre il team trentino decide di puntare ad un colle sul versante opposto della valle, alla base della cresta est dell’Edgar per poi eventualmente salire ad una cima adiacente tale colle. La mattina partiamo tutti nella nebbia fitta, il sole del giorno prima è solo un pallido ricordo ma decidiamo comunque di continuare verso il nostro obiettivo fiduciosi nelle previsioni meteo. La nostra perseveranza sarà premiata perché poco sopra i 4.000mt usciamo dalla nebbia e ci troviamo con una giornata di sole perfetta. La cresta da noi scelta si rivela comunque non banale: terreno sì classico ma pur sempre impegnativo, con passaggi di roccia fino al V° grado. Ad un inizio su rocce coperte da lichene e cenge erbose segue una parte su roccia più compatta fino ad arrivare sull’anticima da cui siamo obbligati a fare una doppia di 50mt per poter proseguire. La doppia ci porta ad una forcella da dove attraversiamo per prendere un canale dove la roccia diventa decisamente più friabile ma ormai pochi metri ci separano da questa prima vetta della nostra avventura: sono le due del pomeriggio quando ci abbracciamo felici sulla punta ad una quota che supera di poco i 5.000mt. Per la discesa ci lasciamo guidare dall’istinto attraverso i vari canali che solcano la montagna e dopo qualche ora rientriamo al campo base dove Schock e Donald ci stanno aspettando con il solito riso e le proverbiali verdure! Anche i nostri amici trentini arrivano più o meno alla stessa ora e passiamo la cena a raccontarci a vicenda le salite della giornata. Noi decidiamo di dedicare la cima che abbiamo scalato a Joel, un amico scomparso sul cervino un anno fa, mentre i trentini ci raccontano di aver aperto una via sulla cima che chiameranno “Little Edgar”: come prima giornata non c’è proprio male!
Salendo alla Punta Deanoz, una volta usciti dalla nebbia l'Edgar svetta imponente

Il monte Edgar

Sulla nostra via "Welcome to the Jungle"

Il campo base

Le tende che sono state la nostra casa per un mese

L'Edgar al tramonto

Il gruppo del Melcyr Shan

I tre giorni successivi come previsto ci riservano un meteo poco incoraggiante: tante nubi e precipitazioni, al campo base regna la solita nebbia che, pioggia o non pioggia, non ci consente di stare fuori dalle tende per più di 5 minuti senza ritrovarci ricoperti di umidità da capo a piede. Nonostante il tempo cerchiamo lo stesso di spingerci in una ricognizione verso l’enorme ghiacciaio ai piedi della parete nord dell’Edgar: qui il ghiacciaio è interrotto da un’enorme seraccata alta quasi 1.000mt che dobbiamo assolutamente riuscire a superare per poter accedere al plateau superiore che rappresenta la chiave di accesso per la parete ovest dell’Edgar. Ci rendiamo subito conto che ci aspetta un lavoro non da poco e che probabilmente alcuni passaggi ci obbligheranno ad esporci ai pericolosi seracchi ma decidiamo comunque di provarci, alla prima finestra di bel tempo. La finestra non tarda ad arrivare: dopo tre giorni di brutto tempo le previsioni ci annunciano almeno 3 giorni di tempo stabile. Decidiamo di unire tutte le nostre forze e partiamo tutti e sei alla volta dell’immensa seraccata, questa volta con l’obiettivo di superarla e di attrezzare un passaggio sicuro per poter raggiungere agevolmente il campo che vorremmo piazzare sul plateau a quota 5.200mt. Manco a dirlo la giornata risulta davvero dura: come pensavamo la nostra via di accesso passerà sulla sinistra orografica del ghiacciaio e attrezzeremo la prima parte su seracchi con passaggi strapiombanti e la parte alta sulla barra rocciosa che ci impegnerà tecnicamente fino a dover utilizzare le scarpette per passare! Comunque dopo 12 ore di lotta riusciamo a piazzare il nostro campo sul bordo dell’immenso plateau glaciale circondato da giganti come l’Edgar, il Grosvenor e la catena che li unisce come una grande corona, davvero uno spettacolo imponente! Decidiamo di chiamare questo il “Campo degli Italiani” e ci prepariamo per passare la nostra prima notte di acclimatamento a 5.200mt. Il giorno dopo saliamo fino al colle alla base della cresta sud-ovest dell’Edgar (salita dai coreani nel 2003) continuando nell’acclimatamento fino a quota 6.000mt. François, Emrik e Tomas arrivati al colle decidono di continuare sul pendio soprastante con l’idea di raggiungere un buon punto di vista per osservare le condizioni delle creste della montagna. Raggiungono la dorsale che sovrasta il colle a 6.200mt e si rendono conto di essere su una cima a se stante che chiameranno Twenty Shan, in onore a loro ventenni! Io, Bicio e Matteo intanto abbiamo già cominciato la discesa e li aspetteremo al Campo degli Italiani preparando il thè caldo. Per completare questa fase di acclimatamento decidiamo di passare un’altra notte in questo campo alto e di ridiscendere l’indomani al campo base. Durante la notte Tomas non riesce a dormire e, come ci ha poi raccontato, sentiva la Ovest dell’Edgar che lo chiamava e così a mezzanotte, da solo, decide di partire verso la parete illuminata dalla luna piena. Tomas sale da solo la parete Ovest in perfette condizioni e sbuca in cima all’Edgar poco dopo le 6 di mattina! Davvero una performance degna dei migliori alpinisti al mondo considerando anche il poco acclimatamento e le giornate precedenti dove non abbiamo proprio passeggiato! Noi lo aspettiamo al campo base dove festeggiamo con lui il suo exploit prima di cominciare la discesa verso il campo base che ci impegnerà comunque per più di 5 ore.
Salendo verso la seraccata che dovremo superare

Cercando una via tra i seracchi...

Ambiente severo

Attraversando il plateau sotto la Ovest dell'Edgar

In salita verso il colle a 6000mt

Cerchiamo la via tra i crepacci, l'Edgar ci osserva silenzioso

François, Emrik e Tomas salgono verso il Twenty Shan

In discesa verso il campo base

Dopo la finestra di tempo perfetto (sia per temperatura che per assenza di vento) che ha permesso a Tomas di salire la parete Ovest in quello stile, il meteo comincia a cambiare: si alternano giornate di tempo buono ad altre decisamente brutte ma mantenendo sempre una certa instabilità e soprattutto sempre con vento forte in quota. Decidiamo allora di dedicarci a esplorare le cime intorno al nostro campo base, in zone il più riparate possibile dal vento e a quote più modeste. Io, François e Emrik apriamo una bella via di roccia fino al 6b su un magnifico pilastro alto quasi 5.000mt che decidiamo di dedicare a Gerard, amico e presidente della nostra Società Guide tragicamente scomparso sul Cervino l’anno scorso (insieme a Joel). Poi durante i giorni successivi saliamo sul ghiacciaio al di sopra del Pilier Gerard Ottavio (così abbiamo chiamato il pilastro dedicato a Gerard) e andiamo a esplorare il bacino del cosiddetto Melcyr Shan. Scopriamo che oltre al già conosciuto Melcyr Shan appunto, la zona offre molte possibilità per vie nuove su bellissime cime. Nasce così la “Cresta delle 3 Sorelle”, una stupenda cavalcata realizzata in 3 giorni da me, Emrik e François su una cresta molto affilata e mai banale con ben 3 punte che sfiorano i 6.000mt. Il terreno qui è sempre il misto di alta montagna con alternanza di progressione in conserva a quella con tiri di corda. Dopo questa traversata Emrik decide di rientrare al campo base per problemi di freddo ai piedi, mentre io e François cerchiamo di sfruttare l’ultimo giorno di tempo decente per esplorare un’altra cima di questo stupendo bacino glaciale : questa salita si rivelerà più corta rispetto alla traversata delle 3 sorelle ma decisamente più tecnica, saremo infatti costretti a fare tiri di corda con difficoltà fino al 6a per poter arrivare in cima a quello che chiameremo il “Vallée Shan”, a poco più di 5.600mt. Ci sentiamo davvero appagati per le salite che abbiamo fatto in questa zona della valle e decidiamo di rientrare al campo base nella speranza di avere un’occasione per poter ritornare sull’Edgar. Nel frattempo anche i nostri amici Trentini rientrano al campo base dopo aver esplorato una valle adiacente alla nostra ed essere saliti di nuovo al Campo degli Italiani da dove sono saliti verso il Jiazi Feng, un seimila per lo più nevoso a fianco del Grosvenor.
Il Piler Gerard Ottavio, una sentinella imponente sulla valle

L'Edgar ci guarda sempre imponente

Nebbie sempre sotto di noi ma mai troppo lontane

Salendo verso la cresta delle 3 sorelle

Salendo verso la cresta delle 3 sorelle

Primi tiri della cresta delle 3 sorelle

Selfie sulla Punta Barbara

Cresta delle 3 sorelle

Cresta delle 3 sorelle

Il gruppo delle 3 sorelle all'alba

Sul ghiacciaio verso il Vallée Shan

Sulla cresta del Vallée Shan

Sui primi tiri del Vallée Shan

Il colle alla base del Vallée Shan, sullo sfondo l'Edgar

Soste....

E creste!

Siamo ormai a metà ottobre e le temperature cominciano a cambiare, al campo base si cominciano a vedere le prime nevicate e finalmente il nostro amico metereologo ci annuncia una finestra degna di un tentativo all’Edgar. I nostri due team si dividono quindi in base agli obiettivi che ci eravamo prefissati: i trentini partono alla volta della cresta sud-est mentre noi saliamo al Campo degli Italiani per tentare la cresta Nord-Ovest. Gli amici trentini al secondo giorno di salita decideranno di ritirarsi a quota 5.800mt per problemi legati alle difficoltà e alla pericolosità della salita (roccia friabile e scariche di neve e pietre). Noi invece dopo una notte al Campo degli Italiani attacchiamo decisi la cresta nord-ovest. Dopo una prima parte su terreno misto non troppo impegnativo, la cresta ci impegna a fondo obbligandoci a procedere con tiri di corda e difficoltà fino all’M5. Anche il vento soffia abbastanza forte, probabilmente sui 50-60 Km/h. Continuiamo decisi e siamo tutti ottimisti. Arriviamo al punto dove avevamo previsto di doverci spostare sulla parete nord: con grande sorpresa troviamo qui ottime condizioni e con uno stupendo tiro su ghiaccio quasi verticale sbuchiamo in cima al penultimo pilastro della nostra cresta a quota 6.450mt. Da qui dovremmo solo superare l’ultimo risalto e attraversare al di sopra della parete Ovest per raggiungere la cima. Con altrettanta nostra grande sorpresa però, ci troviamo qui alle prese con cornici quasi strapiombanti di neve inconsistente. Con grande rammarico siamo costretti a constatare che continuare per la cima comporterebbe dei rischi troppo grossi e decidiamo per la ritirata. Dopo una discesa infinita (più di 1.000mt e circa 25 doppie attrezzate con chiodi, nut spuntoni e soprattutto abalakov) raggiungiamo esausti la nostra tenda al Campo degli Italiani dove sprofondiamo nei nostri sacchi a pelo. Rientrati al campo base ci rendiamo conto di quanto vicini eravamo alla cima e alla conclusione della salita ma nonostante il rammarico pensiamo aver fatto la scelta giusta. Decidiamo comunque di chiamare il pilastro dove siamo arrivati “Pilier de l’Espoir”, nella speranza di poter tornare un giorno a completare la salita (noi o chissà, magari qualcun altro!).
Il nostro cuoco all'opera

Il campo base in uno dei rari momenti privi di nebbia

L'Edgar visto dal campo base

Osservando la nostra via dal plateau

Primi tiri della cresta nord-ovest dell'Edgar
Lungo la cresta nord-ovest dell'Edgar

Lungo la cresta nord-ovest dell'Edgar

In ritirata dopo aver raggiunto la cima del "Pilier de l'Espoir"


Manca orai una settimana al nostro rientro in Italia, un’altra perturbazione ci investe e questa volta al campo base abbiamo 40cm di neve. Il tutto sembra lasciare poche possibilità per un ultimo tentativo sulla montagna, però dal meteo ci arriva una luce di speranza: ci saranno un paio di giorni di tempo stabile, anche se con vento sempre abbastanza forte. Decidiamo tutti insieme di fare nonostante tutto un ultimo tentativo. Saliamo al campo degli Italiani tracciando nella neve fresca che a tratti ci arriva fino al ginocchio. Arrivati al campo nel tardo pomeriggio tira un vento degno della Patagonia più selvaggia! Mentre noi installiamo il campo, François e Tomas partono per una ricognizione sul ghiacciaio e tornano con notizie poco rassicuranti: accumuli di neve e traccia tutta da fare! Dal meteo ci arriva la conferma che il vento dovrebbe calare la mattina seguente per poi tornare a rinforzare nel pomeriggio. L’idea iniziale era quella di dividerci in due team per attaccare due goulottes parallele sul versante ovest della montagna per sbucare sulla cresta aperta dai Coreani nel 2003 e da lì proseguire fino alla cima. Date le condizioni poco favorevoli modifichiamo i piani in modo da massimizzare le possibilità di arrivare in vetta: uno dei due team cercherà di salire la goulotte più evidente, mentre l’altro salirà lungo la cresta dei coreani per fare la traccia e darci la possibilità di raggiungere la cima il più velocemente possibile, consapevoli che la finestra di vento non troppo forte sarà breve e dovremo sfruttarla al massimo. Parliamo tra di noi per decidere come dividere le squadre. François e Tomas vogliono provare la goulotte mentre Emrik e Bicio vogliono salire la via coreana. A me piacerebbe salire con Tomas e François ma anche l’amico Matteo vuole andare con loro. Mi rendo subito conto che lasciare Emrik da solo con Bicio sarebbe improponibile, avrebbe significato per Emirk dover tracciare tutta la via da solo. Quindi, grazie all’impreparazione fisica di Bicio la mia scelta è obbligata: dovrò andare sulla via Coreana. Alla fine mi metto il cuore in pace dicendomi che comunque come prima esperienza a quelle quote non potevo neanche avere grosse pretese. Resta comunque un po’ di amarezza per aver dovuto fare una scelta dettata dall’impreparazione di una persone che probabilmente non avrebbe neanche dovuto partecipare ad una spedizione d questo livello. Ma torniamo ai fatti: passiamo una notte decisamente movimentata: il vento invece di mollare si fa sempre più intenso, tanto che ci ritroviamo con la tenda letteralmente schiacciata sulla faccia! Nessuno di noi riesce a dormire e alle due di notte constatiamo che la situazione non è affatto cambiata, sappiamo che così è impossibile salire e decidiamo di rimandare la partenza nella speranza che il vento cali. Incredibilmente verso le tre ci sembra che l’inferno si stia calmando e, anche se poco fiduciosi, io, Bicio e Emrik partiamo alla volta della via Coreana. François, Tomas e Matteo ci seguono partendo una mezz’oretta più tardi, sfruttando la nostra traccia per poi puntare alla goulotte. Continuiamo a salire e il vento incredibilmente si placa. Superiamo la seraccata e il ripido pendio che ci porta in cresta: mi metto la maschera per scaramanzia ma il vento è incredibilmente sopportabile. Intanto François, Tomas e Matteo sulla goulotte stanno trovando anche loro condizioni ottimali: pendii di neve compatta alternati a tiri di ottimo ghiaccio e sbucano sulla cresta Coreana quando noi stiamo attaccando l’ultimo pendio che ci porterà in cima. Come in una favola dal lieto fine, nel primo pomeriggio ci ritroviamo tutti ad abbracciarci in cima al monte Edgar, a quota 6.618mt. Tomas, François e Matteo chiameranno la goulotte da loro aperta “Colpo Finale”. Per gli amanti delle statistiche la nostra è stata la terza spedizione in assoluto a riuscire a raggiungere la vetta del mote Edgar (Tomas in solitaria ha firmato la terza salita assoluta della montagna mentre per noi è stata la quarta…Tomas di fatto è l’unica persona al mondo ad essere salito due volte in cima all’Edgar!!). 
Neve al campo base!

Il paesaggio diventa invernale

Selfie nevoso

In salita lungo la via Coreana: ambiente grandioso!

In salita lungo la via Coreana: ambiente grandioso!

In salita lungo la via Coreana: ambiente grandioso!

In salita lungo la via Coreana: ambiente grandioso!

Ultimi metri per raggiungere la cima dell'Edgar

Cumbre!! 6.618mt

Di ritorno al campo degli italiani

In realtà la cosa che davvero conta è che abbiamo passato un mese su montagne magnifiche a esplorare una natura selvaggia che ci ha insegnato tanto e che ha lasciato qualcosa di indelebile in ognuno di noi….Come poi scriveremo tutti insieme al campo base prima di tornare alle nostre vite di tutti i giorni: “…..Abbiamo trascorso un’esperienza fantastica, in una valle "tutta per noi" una vera avventura tra montagne inesplorate… abbiamo scalato e scoperto un nuovo angolo di mondo, siamo riusciti a scalare il Monte Edgar, una montagna complicata, difficile e pericolosa da tutti i suoi versanti…siamo stati assieme per 40 giorni tra di noi e la natura, più di così non potevamo chiedere!”

Ultimo giorno al campo base



QUI DI SEGUITO GLI SCHIZZI DELLE VIE DA NOI APERTE: